venerdì 20 settembre 2024

L'Impermanenza


L‘impermanenza


Sento troppo spesso persone che si vantano degli innumerevoli anni trascorsi insieme come se fosse un traguardo meritevole, grandi lodi su lavori che durano anni o amicizie senza alcuna data di scadenza, come eterne. Una sorta di soddisfazione nel collezionare anni ed anni di un qualsiasi percorso. Guardo queste persone con un sorriso amaro perché capisco che dietro a tutto ciò c’è solo un semplice bisogno di non cambiare le cose, di lasciarle intatte per anni e questo regala una grande sicurezza. La maggior parte delle persone detesta le idee nuove, dice Sibaldi, non le può vedere. Le idee nuove mettono in discussione le abitudini delle persone. Le persone sono molto affezionate alle proprie abitudini, commettendo un grave errore perché l’abitudine fa parte di quel meccanismo mentale che ti porta a smettere di pensare. Si resta pertanto comodi in una ripetizione sempre uguale di azioni che nascondono una paura profonda , la paura che qualcosa arrivi a disturbare questo illusorio equilibrio.
L’equilibrio illusorio del „per sempre „. Roberto Potocniak ha detto che la vita „è liquida „ intendendo con ciò che la vita scorre e come un fiume non la puoi né fermare, né modificarne il corso. Bruce Lee anche diceva: sii come l’acqua. Ed è come l’acqua che dovremmo essere, imparando a scorrere e a non ancorarci in un qualsiasi punto dell’universo senza possibilità di movimento. Tutto quello che ci circonda è instabile e l’unica certezza che abbiamo è che tutto cambia continuamente. Cambiano le persone, cambiano gli equilibri, cambiano i vicini di casa, cambiano i nostri corpi, cambiano gli affetti.
I buddisti ci insegnano “l’Impermanenza”. I monaci tibetani realizzano, con la sabbia colorata, dei bellissimi disegni che chiamano mandala. A volte ci mettono mesi per realizzarli, tanto sono complessi. Ma, appena li hanno finiti, disperdono la sabbia che li componeva. È un modo per accettare il mutamento delle cose o, come lo chiamano loro, l'impermanenza.

È il famoso Panta rei del filosofo greco Eraclito – tutto scorre - dove risulta implicito il consiglio di accettare la vita in continuo mutamento.

Dovremmo essere consapevoli che se tutto è impermanente allora tutto è in continua trasformazione. Senza l’impermanenza la vita non potrebbe esistere.

Quando ci leghiamo alle nostre abitudini così rassicuranti stiamo bloccando lo scorrere dell’esistenza. Senza sapere che, prima o poi, la vita arriverà a scuoterti dal torpore e ti farà svegliare.
Quando si è subita una grave perdita, per esempio, ci si rende conto che non esiste nessun controllo sugli eventi della nostra vita e tutto può cambiare e modificarsi irrimediabilmente in pochi secondi. L’impermanenza, a quel punto, si impara attraverso un dolore immenso e devastante. In seguito si comprende che ogni cosa possiamo perderla e vederla sparire dal nostro orizzonte.

Il Budda ha esortato i seguaci a non limitarsi a parlare dell'impermanenza, ma ad usarla come strumento per ottenere una visione interiore liberatoria: “Soffri perché pensi che tutto sia durevole” diceva e affermava che: “Ogni porta è lasciata libera per il cambiamento”.

Come aveva compreso il Buddha la natura delle nostre sofferenze sta nell’attaccamento poiché l’attaccamento ci rende vulnerabili proprio alla perdita. Mi son sempre chiesta come si possa fare a vivere senza attaccamento, finché ho compreso che non è l’attaccamento che ci rende infelici ma l’incapacità di apprezzare ogni singolo momento e godere della presenza di qualcuno o qualcosa nel momento presente. Quando si impara a stare nel momento presente l’attaccamento non provoca più ipoteche sulla nostra vita futura come ci illudevamo di fare in passato.

Conviene lasciare scorrere la vita perché quando arriva la sensazione che qualcosa si è concluso dobbiamo accettarlo, quando qualcuno si allontana da noi allora significa che per quella persona noi non siamo più in grado di offrire nulla e viceversa quando siamo noi ad allontanarci. Quando le sofferenze hanno ottemperato al loro compito di farci diventare consapevoli e svegli allora possiamo lasciarle andare . Solo lasciando andare, solo eliminando quello che non ci serve più possiamo lasciare posto a quello che di nuovo la vita ci ha riservato.

Lo so che chiudere i cicli richiede molto coraggio, ma per essere in salute bisogna imparare a farlo. A volte abbiamo bisogno di lasciare andare inutili moti di orgoglio altre volte basterebbe superare la nostra pigrizia, il veleno della vecchiaia come la definiva Castaneda.

“L’uomo non ama il cambiamento, perché cambiare significa guardare in fondo alla propria anima con sincerità mettendo in contesa se stessi e la propria vita.

Bisogna essere coraggiosi per farlo, avere grandi ideali. La maggior parte degli uomini preferisce crogiolarsi nella mediocrità e fare del tempo lo stagno della propria esistenza.” Erasmo da Rotterdam 


Quel senso di insoddisfazione e di irrequietezza che ci capita di avvertire ci indica che è arrivato il momento di cambiare. Ecco che allora che siamo chiaramente davanti ad un bivio della nostra Vita.
E allora, per evitare dolorosi rimpianti,  dobbiamo avere la forza e il coraggio di chiudere i cicli, di cambiare musica, di trasformare emozioni e percezioni, rimuovere la polvere da sé stessi e da tutto ciò che non risuona, di lasciare andare il più possibile gli attaccamenti per poter ricontattare e/o riconoscere il nostro sé, per tornare ad essere realmente chi siamo.


Danisieger

domenica 14 luglio 2024

Willkommen in Deutschland

 

                                                                                  


WILLKOMMEN IN DEUTSCHLAND



Percorrevo la stessa strada ogni giorno. Ogni angolo di quella strada delimitava un passaggio dell’anima, ogni pozzanghera un mucchio di lacrime torbide e maleodoranti. Molto spesso le rotte della vita si modificano a nostra insaputa, molto spesso assistiamo alle conclusioni di un ciclo che evidentemente non aveva piú il diritto di esistere e noi siamo nella parte degli spettatori increduli.

Mi dirigevo al maneggio, come ogni giorno, e come ogni giorno mi prendevo cura di lui, il mio amico stabilmente fuso con la mia esistenza, il mio cavallo. Quell’animale cosí istintivo e selvaggio che mi richiedeva quotidianamente la forza di mettere un passo avanti all’altro.

Nulla era piú come prima nella mia vita in quel momento e nulla lo sarebbe piú stato. Stavo affrontando il mi piú grande fallimento d’amore, una delusione che lasciava nell’aria un tanfo di disgusto, quella nausea provocata da tradimenti e vigliaccherie. Era una di quelle storie cresciute nell’ombra che non ebbe mai il privilegio di riaffiorare alla luce. Nonostante giusta la mia scelta mi aveva catapultato da lunghi anni di passione felice in un presente angoscioso e disperato. E non solo. Le mie amicizie piú solide si dissolvevano sporcate dal sopravvento di inganni e menzogne.

E non solo. La mia famiglia che, sebbene mai abbastanza solida e solidale, si frammentava sotto lo sguardo sprezzante di quel tale dottor Parkison. Mio padre ironizzava la presenza di questo suo immaginario amico fedelmente seduto ogni giorno accanto a sé. “non mi lascia mai” diceva mentre le sue mani maldestre lanciavano la minestra che non reggeva abbastanza la gravitá sul cucchiaio con quel tremore. E gli escrementi non trovavano neanch’essi il loro giusto posto dove essere collocati, mentre la notte si confondeva col giorno in un trascorrere del tempo alterato e bizzarro, come accade in queste malattie.

Ogni cosa era confusamente e tumultuosamente rimaneggiata dagli eventi che sembravano essersi dato appuntamento tutti insieme all’interno della mia esistenza. Niente era piú al suo posto come prima. Uno tsunami dell’esistenza. Nel silenzio delle notti spesso le urla di chi non sapeva sostenere il dolore della malattia riecheggiavano come pipistrelli alla finestra. E non solo. Il mio lavoro, frutto di anni di studio e sacrifici, si era ridotto al solito precariato senza rispetto. Dignitá della propria professione annullata per far spazio agli orgogli personali di Io arroganti e colmi di rabbia contro la vita. Cercavo di ricorrere alla legge per combattere i soprusi, ma la legge é solo un mucchio di scartoffie che ognuno, giudici compresi, vuole compilare e chiudere prima possibile per far largo negli scaffali.

Di giorno svolgevo i miei compiti quotidiani. Continuavo a far la spesa e ogni tanto a mangiare. Riuscivo persino a guardare la tv nonostante le ansie mi percorressero il fisico senza lasciarmi mai. Alleggerivo le isterie di mia madre prendendomi cura di mio padre.

E piangevo. Piangevo mentre facevo la spesa, mentre mi lavavo i denti, mentre concordavo con l’avvocato le ultime faccende sui testimoni della mia causa di lavoro.

Richiami fedeli mi arrivavano da piú parti. La mia solida amica, quella che sapeva chi ero, mi chiedeva di “distanziarmi” dal dolore. Come ci si distanzia da se stessi? Il dolore ed io eravamo entrambi tutt’uno fusi in un unico corpo compatto. Le lacrime mi scorrevano nel piatto e la notte rendevano il cuscino umidiccio e scomodo. Scomodo perché certe notti sono maledettamente scomode. Quando il sole scompare e gli ultimi raggi si affievoliscono sempre piú sembra che possiamo ritrovare il nostro posto all’interno del nostro inferno, nella grotta dell’anima nera, dove i fantasmi si aggirano e ci annientano. Tutto finché riesce a venir fuori il giorno per fortuna ad alleviare quei sintomi.

Avevo bisogno di distanziarmi.

Temevo che ancora un giorno senza piú il mio sangue nelle vene e senza piú respiro nei polmoni sarei sparita in una di quelle notti senza lasciare traccia di me. Sapevo che non mancava molto e i miei pensieri avrebbero preso forma sempre piú astuti nell’attuare quella risoluzione che sembra inevitabile.

Scelsi di distanziarmi, era il consiglio migliore anche se il piú faticoso. Una cugina che viveva in Germania mi avrebbe ospitata per le vacanze di Pasqua. Piangevo anche nell’agenzia viaggi quando la signorina mi prenotava il volo ed impiastricciai il biglietto di scolo nasale che non riuscivo piu a contenere. Non era un viaggio di piacere e forse sarei potuta andare a Lourdes anziché nel Nordrhein-Westfalen. Che ci dovevo fare lí? Avrei potuto visitare le miniere di carbone dismesse. Io sarei sparita volentieri allora nei cuniculi di quelle miniere per seppellire insieme a me quella massa pesantissima di dolore che mi portavo appresso.

Ma dovevo distanziarmi ed era febbraio. Avrei aspettato pasqua a fine marzo. I periodi di festa sono come le notti, acutizzano i sensi e ti fanno percepire le assenze e i dolori con una intensitá tale che ti spinge ad odiarle quelle maledette vacanze.

Mia madre sprigionava la sua teatralitá con raffinata arte mentre mio padre faceva la pipí sui muri, le amicizie diventavano sempre piú evanescenti e tranne qualche sfogo con mia sorella, che mi ascoltava paziente, avevo ben pochi stimoli alla comunicazione.

Quell’uomo che negli ultimi anni aveva rappresentato il centro del mio universo si sbizzarriva in accuse violente e manifestazioni colleriche contro di me, vomitandomi addosso colpe e disprezzo, evidenziando le mie debolezze e usandole come armi in un gioco sporco delle parti. L’arroganza quando perde il suo controllo sa sprigionare vera rabbia, quando le colpe si mischiano alle proprie responsabilitá viene fuori un canto strozzato e stridulo che facevo fatica ad ascoltare. Dover subire tutto ció quando hai giá l’anima in pezzi é davvero una prova di vita. Ma si avvicinava marzo e senza piangere presi quell’uccello di bianco metallo che avrebbe dovuto mettermi a distanza dal dolore.

Mia cugina mi aspettava per mettere finalmente in atto questo diabolico “Distanziamento”,

La cortesia e la gentilezza sua e di suo marito, l’essere in un altro paese tra gente nuova e con un’aria fresca da respirare, resero da subito la mia anima piú leggera permettendomi addirittura di dormire profondamente un’intera notte.

Passai la giornata ridendo a crepapelle con mia cugina. Mi misi lo smalto verde alle unghie e mi feci i codini ai capelli e fu cosí che andai ad aprire la porta quando sentí suonare.

Un viso tedesco, occhi chiari e sopracciglia bionde come i capelli, uno sguardo sorridente.

C’é un tipo alla porta” dissi a mia cugina

Ah si dev’essere l’amico di Michael, fallo entrare” disse lei mentre noncurante continuava a fare le sue faccende in cucina.

Lui entró da quella porta direttamente nella mia vita senza neanche prestare attenzione alle unghie verdi e ai codini da stupida adolescente.

Cenammo insieme e l’ilaritá esplodeva nella stanza come fuochi d’artificio.

Il giorno dopo andammo a fare un giro ad Amsterdam e tra quei ponti e quei vascelli di legno avvertivo come sparissero pian piano le rabbie, le frustrazioni, le sofferenze, i dolori. Passeggiavamo e ridevamo, ci sfioravamo le mani e ci guardavamo. In 24 ore era stato segnato il confine tra la mia esistenza passata e la mia vita futura. Un ponte per la salvezza.

Fu da quella sera che evaporarono i disagi tra noi per far spazio a quell’unione di anime che non ci é concesso spesso di sperimentare.

Quando Thomas prese tra le mani il mio biglietto aereo ancora sdrucito di lacrime e lo strappó riuscí a lasciarmi senza fiato. “Tu non parti piú, tu resti qui con me” mi disse sorridente.

Non lo presi seriamente a dire il vero, risi divertita mentre mi organizzavo per restare qualche giorno in piú. Esploravamo i parchi, esploravamo le nostre menti. Ci scrutavamo l’un l’altro come a trovare quel segno di valore che ci univa. Lo osservavo mentre suonava al pianoforte e quelle note mi arrivavano cosí dentro da sembrare le cellule perse del mio sangue che riprendevano il loro viaggio su e giú tra le mie vene. Tornai a casa con una faccia nuova. Nessun chirurgo estetico credo sia in grado di modificare i lineamenti del viso come furono modificati a me dopo quel viaggio, sprigionavo sguardi nuovi che non passavano inosservati.

Ci parlavamo tutte le sere per ore Thomas ed io Il suo italiano era impacciato, il mio inglese ancor di piú, ma ci capivamo bene e google traduttore non esisteva ancora. Ma l’anima traduce in parole tutto quello che vuole e quando vuole traduce persino il silenzio.

Ma non potevo seguirlo, il Dottor Parkinson diceva che mio padre aveva bisogno di me e non sarei mai riuscita ad allontanarmi da quella famiglia cosí dissestata.

Thomas venne a trovarmi a giugno. Conobbe mio padre che allora era nella casa di riposo. Passeggiammo insieme nel parco e l’aria era giá calda. Il cielo azzurro e le cicale facevano da sfondo. Lucidamente mio padre ci osservava. Sempre sfacciatamente curioso lo interrogó a lungo. Volle sapere tutto di lui, della sua vita, dei suoi progetti. Capí che lui aveva un progetto preciso e che difficilmente avrebbe mollato.

Il giorno successivo ci chiamarono dalla casa di riposo per informarci che mio padre si era ammalato. “Un influenza”, disse il medico del Centro.

Quando andammo a trovarlo non era piú lo stesso uomo del giorno prima. Era rimasto a letto in camera e il suo viso era profondamente sofferente. Ci guardava attentamente e con lo sguardo cosí fisso su di me che mi spinse a chiedergli : “perché mi guardi cosí papá?”

perché finalmente vedo la gioia nei tuoi occhi” rispose con un filo di voce

poi si rivolse a Thomas e lo guardó ancora intensamente negli occhi

“Tu la ami?” gli chiese senza alcun pudore

“Ma certo che la amo “ rispose lui senza esitare

Un gesto lento come se fosse al rallentatore lo portó a girare la testa verso di me e quasi a bassa voce come se mi stesse confidando un segreto che nessuno doveva ascoltare disse:

“quest’uomo mi piace”

Queste furono le sue ultime parole.

Entró in stato di coma e il mattino seguente morí

Salutammo amici e parenti, prendemmo le condoglianze con serenitá, c’era tanta pace in quella stanza.

Non versai una sola lacrima quei giorni. Ero finalmente serena per lui. Era arrivato finalmente quel momento che spezza ogni squallido senso di vivere una vita disperata e sofferta.

Sereno mi lasció volare spezzando le catene che inchiodavano lui alla sua sedia a rotelle e me alla mia sedia di perdite e dolori.

Avevamo varcato insieme la soglia di un aldilá. Insieme avevamo abbandonato la sofferenza e insieme ci eravamo salutati consapevoli del viaggio che ognuno di noi si accingeva a fare.

Ancora oggi mi chiedo come si possa scegliere di partire senza biglietto di ritorno, ma ci sono viaggi che evidentemente vanno fatti con il cuore e con un gran coraggio.

Thomas ed io partimmo subito dopo il funerale. Mia madre ci salutó serena.

“Adesso puoi andare tranquilla “ mi disse

Anche il mio cavallo mi seguí in questo viaggio di sola andata.

Il freddo, la cultura, la lingua, ogni cosa ha necessitato uno sforzo da parte mia. Persino le strade erano un problema fino a quando non ebbi finalmente conquistato il mio primo navigatore. Non solo il navigatore, ma anche la tecnologia nel mio caso ha creato un ponte tra me e le mie nostalgie, tra me e i miei affetti sostenendomi e rassicurandomi.

Ho pianto a volte nel non riuscire a trovare un ruolo che mi appartenesse. Ho avuto rabbia e sconforto nel declinare i verbi e gli aggettivi e ho dovuto persino modificare la mia gestualitá e il mio tono di voce troppo appariscente a volte.

Ho imparato a guidare con la cintura e a osservare i limiti di velocitá. Continuo sempre a cucinare la pasta e la cucina italiana non é mai stata messa in discussione a differenza di alcune usanze che invece hanno dovuto riaggiustarsi.

Qualcosa l’ho tenuta stretta, qualcosa l’ho mollata via, ma alla fine ho potuto godere di privilegi che non a tutti é dato di avere. Ma soprattutto sento di aver lasciato dietro di me quello che andava lasciato. Non mi sono mai voltata indietro e sebbene ancora scalpito per insofferenze o aspirazioni deluse mi capita di sorridere divertita quando il mio cellulare italiano ancora oggi, dopo vent’ anni, mi dice :Willkommen in Deutschland!

Tre Voci

 



Tre Voci

Oggi, dopo tanto tempo, ti ho rivisto, nei miei sogni ed ho parlato di nuovo con te. Il dolore di quei giorni lontani si è ormai placato. Una strana leggerezza è scesa tra noi. E passato il tempo delle richieste. -ti ho perdonato, mi hai perdonata. Solo a noi é permesso farlo, solo noi possiamo assolverci o condannarci. La strada del perdono è stata lunga e difficile. L'abbiamo percorsa da soli, separati da un dolore che non era più possibile condividere oltre.

Ho preso l'aereo e sono scappata via, ho lasciato che la distanza mi separasse da te. Ho lasciato che i suoni di un'altra lingua mi facessero dimenticare la tua voce. Ho vissuto l'esilio, ho esiliato la mia anima. Di nuovo ho esiliato le mie emozioni, nuovamente ho incendiato la terra dietro di me, nuovamente ho bruciato il passato, il passato diviso con te. Ho attraversato il bosco, perché il suo silenzio potesse decantare nella mia anima il dolore, perché nel suo vuoto potessi ritrovarmi. Alberi immensi, per accogliere le mie immagini, per accogliere le mie emozioni. Sui sentieri ho disegnato la mia storia, il mio mandala, e ho capito. Tra quei segni, prima incomprensibili, ho scorto il Senso, il senso della mia storia, il senso del nostro incontro, ho intravisto per la prima volta il progetto per cui sono venuta al mondo. Poi ho lasciato il bosco con i folletti e le fate e sono tornata tra la gente. Ora anch'io ascolto le voci della sofferenza. Il mio ascolto è lieve, il mio viso ridente. Ho imparato a danzare con il dolore, ho imparato a giocare con la vita.

 Un uomo è apparso alla porta d’ingresso. Mi sorrideva. Con lui ho provato di nuovo a condividere la mia storia, le mie emozioni. Da lui ho imparato un amore diverso, tenero e giocoso. L'antico dolore si è finalmente composto in un disegno che gli da significato. Ora so che ogni evento che ho vissuto, che ogni incontro che ho fatto erano necessari.

 Ancora una volta, l'ultima, torno indietro a quel tempo passato. Emozioni e domande si intrecciano come allora, ma non hanno più il sapore acre dell'angoscia. Ho accettato la mancanza di risposte, ho accettato l‘esistenza di tante verità, di tante spiegazioni che si sovrappongono, tutte ugualmente vere, tutte ugualmente incerte e parziali. Le espressioni del tuo viso, i tuoi gesti, le tue parole non possono più ferirmi. Del dolore di un tempo mi rimane. una piccola scatola colma di tenerezza. Mi guardo indietro e sorrido. Sorrido alla mia inconsapevolezza, al mio bisogno d'amore, alle mie impossibili richieste, sorrido al bambino spaventato che è in te, al tuo eterno bisogno di essere amato, alle tue fughe, alle tue bugie. Consumata la rabbia e decantato il dolore, guardo tutto ciò con tenero distacco. Ho cercato nei tuoi occhi l'immagine della mia femminilità, hai cercato nei miei occhi la conferma al tuo desiderio di essere amato. Mi hai insegnato il linguaggio dell'amore, della seduzione, del tradimento, della violenza, permettendo alle mie emozioni di essere vissute, permettendomi di comprendere il mio tetro passato. Ti ho regalato la mia tenerezza, un amore in cui sentirti grande e forte, ti ho donato uno specchio in cui guardare il bambino che è in te. Ti sei specchiato nella mia vulnerabilità, nel mio bisogno totale e assoluto di essere amata. Dai nostri errori è nato qualcosa. Facendoci camminare sul confine della morte, della distruzione, della follia, hanno fecondato le nostre vite. Non posso immaginare qualcosa di diverso da ciò che è accaduto.

 Ieri notte sognarti mi ha provocato una forte inquietudine. D'improvviso tutto il passato mi ha nuovamente assalita, portando con sé emozioni che credevo definitivamente scomparse. Ma la vita ci cambia inesorabilmente e non possiamo più essere ciò che siamo stati, se non per rari momenti, in frammenti di ricordo di sogni affondati nell'oscurità della notte, nel segreto dell’anima. Il mio sogno racconta un'iniziazione. Ora so che il tuo compito era quello di iniziarmi alla vita. Dovevi accogliere e guidare l'esistenza che ti era affidata. Dovevi aiutarmi a scoprire chi ero, tramutando il mio volto di bambina in quello di una donna. Ma tu ed io abbiamo rischiato di confondere i domini del simbolo e quelli della realtà, abbiamo pagato a caro prezzo questa confusione. In quel tempo lontano credevo che, dopo tanto dolore, l'aprirsi alla vita fosse un camminare leggero sull'erba. Ignoravo la sofferenza che mi attendeva. Ora so che il tuo compito è stato quello di iniziarmi alla vita e alla morte. Mi hai insegnato a nascere e a morire.-Forse tutto questo poteva accadere in un altro modo, forse la strada poteva essere meno dolorosa, forse... Non lo saprò mai. Ma, ora, posso augurarti di placare la tua inquietudine, posso augurarti di amare ed essere amato, di incontrare quell'amore che cerchi e che è diverso dal mio amore di un tempo e dal mio affetto di adesso. Ora posso congedarmi da te senza dolore, senza rimpianto, consegnandoti il mio affetto senza tempo.


Tratto da Riti e miti della seduzione di Aldo Carotenuto