WILLKOMMEN IN
DEUTSCHLAND
Percorrevo
la stessa strada ogni giorno. Ogni angolo di quella strada delimitava
un passaggio dell’anima, ogni pozzanghera un mucchio di lacrime
torbide e maleodoranti. Molto spesso le rotte della vita si
modificano a nostra insaputa, molto spesso assistiamo alle
conclusioni di un ciclo che evidentemente non aveva piú il diritto
di esistere e noi siamo nella parte degli
spettatori increduli.
Mi
dirigevo al maneggio, come ogni giorno, e come ogni giorno mi
prendevo cura di lui, il mio amico stabilmente fuso con la mia
esistenza, il mio cavallo. Quell’animale cosí istintivo e
selvaggio che mi richiedeva quotidianamente la forza di mettere un
passo avanti all’altro.
Nulla
era piú come prima nella mia vita in quel momento e nulla lo sarebbe
piú stato. Stavo affrontando il mi piú grande fallimento d’amore,
una delusione che lasciava nell’aria un tanfo di disgusto, quella
nausea provocata da tradimenti e vigliaccherie. Era una di quelle
storie cresciute nell’ombra che non ebbe mai il privilegio di
riaffiorare alla luce. Nonostante giusta la mia scelta mi aveva
catapultato da lunghi anni di passione felice in un presente
angoscioso e disperato. E non solo. Le mie amicizie piú solide si
dissolvevano sporcate dal sopravvento di inganni e menzogne.
E
non solo. La mia famiglia che, sebbene mai abbastanza solida e
solidale, si frammentava sotto lo sguardo sprezzante di quel tale
dottor Parkison. Mio padre ironizzava la presenza di questo suo
immaginario amico fedelmente seduto ogni giorno accanto a sé. “non
mi lascia mai” diceva mentre le sue mani maldestre lanciavano la
minestra che non reggeva abbastanza la gravitá sul cucchiaio con
quel tremore. E gli escrementi non trovavano neanch’essi il loro
giusto posto dove essere collocati, mentre la notte si confondeva col
giorno in un trascorrere del tempo alterato e bizzarro, come accade
in queste malattie.
Ogni
cosa era confusamente e tumultuosamente rimaneggiata dagli eventi che
sembravano essersi dato appuntamento tutti insieme all’interno
della mia esistenza. Niente era piú al suo posto come prima. Uno
tsunami dell’esistenza. Nel silenzio delle notti spesso le urla di
chi non sapeva sostenere il dolore della malattia riecheggiavano come
pipistrelli alla finestra. E non solo. Il mio lavoro, frutto di anni
di studio e sacrifici, si era ridotto al solito precariato senza
rispetto. Dignitá della propria professione annullata per far spazio
agli orgogli personali di Io arroganti e colmi di rabbia contro la
vita. Cercavo di ricorrere alla legge per combattere i soprusi, ma
la legge é solo un mucchio di scartoffie che ognuno, giudici
compresi, vuole compilare e chiudere prima possibile per far largo
negli scaffali.
Di
giorno svolgevo i miei compiti quotidiani. Continuavo a far la spesa
e ogni tanto a mangiare. Riuscivo persino a guardare la tv nonostante
le ansie mi percorressero il fisico senza lasciarmi mai. Alleggerivo
le isterie di mia madre prendendomi cura di mio padre.
E piangevo. Piangevo mentre facevo la spesa, mentre mi lavavo i
denti, mentre concordavo con l’avvocato le ultime faccende sui
testimoni della mia causa di lavoro.
Richiami
fedeli mi arrivavano da piú parti. La mia solida amica, quella che
sapeva chi ero, mi chiedeva di “distanziarmi” dal dolore. Come ci
si distanzia da se stessi? Il dolore ed io eravamo entrambi tutt’uno
fusi in un unico corpo compatto. Le lacrime mi scorrevano nel piatto
e la notte rendevano il cuscino umidiccio e scomodo. Scomodo perché
certe notti sono maledettamente scomode. Quando il sole scompare e
gli ultimi raggi si affievoliscono sempre piú sembra che possiamo
ritrovare il nostro posto all’interno del nostro inferno, nella
grotta dell’anima nera, dove i fantasmi si aggirano e ci
annientano. Tutto finché riesce a venir fuori il giorno per fortuna
ad alleviare quei sintomi.
Avevo bisogno di distanziarmi.
Temevo
che ancora un giorno senza piú il mio sangue nelle vene e senza piú
respiro nei polmoni sarei sparita in una di quelle notti senza
lasciare traccia di me. Sapevo che non mancava molto e i miei
pensieri avrebbero preso forma sempre piú astuti nell’attuare
quella risoluzione che sembra inevitabile.
Scelsi
di distanziarmi, era il consiglio migliore anche se il piú faticoso.
Una cugina che viveva in Germania mi avrebbe ospitata per le vacanze
di Pasqua. Piangevo anche nell’agenzia viaggi quando la signorina
mi prenotava il volo ed impiastricciai il biglietto di scolo nasale
che non riuscivo piu a contenere. Non era un viaggio di piacere e
forse sarei potuta andare a Lourdes anziché nel Nordrhein-Westfalen.
Che ci dovevo fare lí?
Avrei potuto visitare le miniere di carbone dismesse. Io sarei
sparita volentieri allora nei cuniculi di quelle miniere per
seppellire insieme a me quella massa pesantissima di dolore che mi
portavo appresso.
Ma
dovevo distanziarmi ed era febbraio. Avrei aspettato pasqua a fine
marzo. I periodi di festa sono come le notti, acutizzano i sensi e ti
fanno percepire le assenze e i dolori con una intensitá tale che ti
spinge ad odiarle quelle maledette vacanze.
Mia
madre sprigionava la sua teatralitá con raffinata arte mentre mio
padre faceva la pipí sui muri, le amicizie diventavano sempre piú
evanescenti e tranne qualche sfogo con mia sorella, che mi ascoltava
paziente, avevo ben pochi stimoli alla comunicazione.
Quell’uomo
che negli ultimi anni aveva rappresentato il centro del mio universo
si sbizzarriva in accuse violente e manifestazioni colleriche contro
di me, vomitandomi addosso colpe e disprezzo, evidenziando le mie
debolezze e usandole come armi in un gioco sporco delle parti.
L’arroganza quando perde il suo controllo sa sprigionare vera
rabbia, quando le colpe si mischiano alle proprie responsabilitá
viene fuori un canto strozzato e stridulo che facevo fatica ad
ascoltare. Dover subire tutto ció quando hai giá l’anima in pezzi
é davvero una prova di vita. Ma si avvicinava marzo e senza piangere
presi quell’uccello di bianco metallo che avrebbe dovuto mettermi a
distanza dal dolore.
Mia cugina mi aspettava per mettere finalmente in atto questo
diabolico “Distanziamento”,
La
cortesia e la gentilezza sua e di suo marito, l’essere in un altro
paese tra gente nuova e con un’aria fresca da respirare, resero da
subito la mia anima piú leggera permettendomi addirittura di dormire
profondamente un’intera
notte.
Passai
la giornata ridendo a crepapelle con mia cugina. Mi misi lo smalto
verde alle unghie e mi feci i codini ai capelli e fu cosí che andai
ad aprire la porta quando sentí suonare.
Un viso tedesco, occhi chiari e sopracciglia bionde come i capelli,
uno sguardo sorridente.
“C’é
un tipo alla porta” dissi a mia cugina
“Ah
si dev’essere l’amico di Michael, fallo entrare” disse lei
mentre noncurante continuava a fare le sue faccende in cucina.
Lui
entró da quella porta direttamente nella mia vita senza neanche
prestare attenzione alle unghie verdi e ai codini da stupida
adolescente.
Cenammo insieme e l’ilaritá esplodeva nella stanza come fuochi
d’artificio.
Il
giorno dopo andammo a fare un giro ad Amsterdam e tra quei ponti e
quei vascelli di legno avvertivo come sparissero pian piano le
rabbie, le frustrazioni, le sofferenze, i dolori. Passeggiavamo e
ridevamo, ci sfioravamo le mani e ci guardavamo. In 24 ore era stato
segnato il confine tra la mia esistenza passata e la mia vita futura.
Un ponte per la salvezza.
Fu da quella sera che evaporarono i disagi tra noi per far spazio a
quell’unione di anime che non ci é concesso spesso di
sperimentare.
Quando
Thomas prese tra le mani il mio biglietto aereo ancora sdrucito di
lacrime e lo strappó riuscí a lasciarmi senza fiato. “Tu non
parti piú, tu resti qui con me” mi disse sorridente.
Non
lo presi seriamente a dire il vero, risi divertita mentre mi
organizzavo per restare qualche giorno in piú. Esploravamo i parchi,
esploravamo le nostre menti. Ci scrutavamo l’un l’altro come a
trovare quel segno di valore che ci univa. Lo osservavo mentre
suonava al pianoforte e quelle note mi arrivavano cosí dentro da
sembrare le cellule perse del mio sangue che riprendevano il loro
viaggio su e giú tra le mie vene. Tornai a casa con una faccia
nuova. Nessun chirurgo estetico credo sia in grado di modificare i
lineamenti del viso come furono modificati a me dopo quel viaggio,
sprigionavo sguardi nuovi che non passavano inosservati.
Ci
parlavamo tutte le sere per ore Thomas ed io Il suo italiano era
impacciato, il mio inglese ancor di piú, ma ci capivamo bene e
google traduttore non esisteva ancora. Ma l’anima traduce in parole
tutto quello che vuole e quando vuole traduce persino il silenzio.
Ma non potevo seguirlo, il Dottor Parkinson diceva che mio padre
aveva bisogno di me e non sarei mai riuscita ad allontanarmi da
quella famiglia cosí dissestata.
Thomas
venne a trovarmi a giugno. Conobbe mio padre che allora era nella
casa di riposo. Passeggiammo insieme nel parco e l’aria era giá
calda. Il cielo azzurro e le cicale facevano da sfondo. Lucidamente
mio padre ci osservava. Sempre sfacciatamente curioso lo interrogó a
lungo. Volle sapere tutto di lui, della sua vita, dei suoi progetti.
Capí che lui aveva un progetto preciso e che difficilmente avrebbe
mollato.
Il
giorno successivo ci chiamarono dalla casa di riposo per informarci
che mio padre si era ammalato. “Un influenza”, disse il medico
del Centro.
Quando
andammo a trovarlo non era piú lo stesso uomo del giorno prima. Era
rimasto a letto in camera e il suo viso era profondamente sofferente.
Ci guardava attentamente e con lo sguardo cosí fisso su di me che mi
spinse a chiedergli : “perché mi guardi cosí papá?”
“perché
finalmente vedo la gioia nei tuoi occhi” rispose con un filo di
voce
poi
si rivolse a Thomas e lo guardó ancora intensamente negli occhi
“Tu la ami?” gli chiese senza alcun pudore
“Ma certo che la amo “ rispose lui senza esitare
Un gesto lento come se fosse al rallentatore lo portó a girare la
testa verso di me e quasi a bassa voce come se mi stesse confidando
un segreto che nessuno doveva ascoltare disse:
“quest’uomo mi piace”
Queste furono le sue ultime parole.
Entró in stato di coma e il mattino seguente morí
Salutammo
amici e parenti, prendemmo le condoglianze con serenitá, c’era
tanta pace in quella stanza.
Non versai una sola lacrima quei giorni. Ero finalmente serena per
lui. Era arrivato finalmente quel momento che spezza ogni squallido
senso di vivere una vita disperata e sofferta.
Sereno
mi lasció volare spezzando le catene che inchiodavano lui alla sua
sedia a rotelle e me alla mia sedia di perdite e dolori.
Avevamo
varcato insieme la soglia di un aldilá. Insieme avevamo abbandonato
la sofferenza e insieme ci eravamo salutati consapevoli del viaggio
che ognuno di noi si accingeva a fare.
Ancora
oggi mi chiedo come si possa scegliere di partire senza biglietto di
ritorno, ma ci sono viaggi che evidentemente vanno fatti con il cuore
e con un gran coraggio.
Thomas ed io partimmo subito dopo il funerale. Mia madre ci salutó
serena.
“Adesso puoi andare tranquilla “ mi disse
Anche
il mio cavallo mi seguí in questo viaggio di sola andata.
Il
freddo, la cultura, la lingua, ogni cosa ha necessitato uno sforzo da
parte mia. Persino le strade erano un problema fino a quando non ebbi
finalmente conquistato il mio primo navigatore. Non solo il
navigatore, ma anche la tecnologia nel mio caso ha creato un ponte
tra me e le mie nostalgie, tra me e i miei affetti sostenendomi e
rassicurandomi.
Ho
pianto a volte nel non riuscire a trovare un ruolo che mi
appartenesse. Ho avuto rabbia e sconforto nel declinare i verbi e gli
aggettivi e ho dovuto persino modificare la mia gestualitá e il mio
tono di voce troppo appariscente a volte.
Ho
imparato a guidare con la cintura e a osservare i limiti di velocitá.
Continuo sempre a cucinare la pasta e la cucina italiana non é mai
stata messa in discussione a differenza di alcune usanze che invece
hanno dovuto riaggiustarsi.
Qualcosa
l’ho tenuta stretta, qualcosa l’ho mollata via, ma alla fine ho
potuto godere di privilegi che non a tutti é dato di avere. Ma
soprattutto sento di aver lasciato dietro di me quello che andava
lasciato. Non mi sono mai voltata indietro e sebbene ancora scalpito
per insofferenze o aspirazioni deluse mi capita di sorridere
divertita quando il mio cellulare italiano ancora oggi, dopo vent’
anni, mi dice :Willkommen in Deutschland!