Percorrevo la stessa strada ogni giorno. Ogni angolo di quella strada delimitava un passaggio dell’anima, ogni pozzanghera un mucchio di lacrime torbide e maleodoranti. Molto spesso le rotte della vita si modificano a nostra insaputa, molto spesso assistiamo alle conclusioni di un ciclo che evidentemente non aveva piú il diritto di esistere e noi siamo nella parte degli spettatori increduli.
Mi dirigevo al maneggio, come ogni giorno, e come ogni giorno mi prendevo cura di lui, il mio amico stabilmente fuso con la mia esistenza, il mio cavallo. Quell’animale cosí istintivo e selvaggio che mi richiedeva quotidianamente la forza di mettere un passo avanti all’altro.
Nulla era piú come prima nella mia vita in quel momento e nulla lo sarebbe piú stato. Stavo affrontando il mi piú grande fallimento d’amore, una delusione che lasciava nell’aria un tanfo di disgusto, quella nausea provocata da tradimenti e vigliaccherie. Era una di quelle storie cresciute nell’ombra che non ebbe mai il privilegio di riaffiorare alla luce. Nonostante giusta la mia scelta mi aveva catapultato da lunghi anni di passione felice in un presente angoscioso e disperato. E non solo. Le mie amicizie piú solide si dissolvevano sporcate dal sopravvento di inganni e menzogne.
E non solo. La mia famiglia che, sebbene mai abbastanza solida e solidale, si frammentava sotto lo sguardo sprezzante di quel tale dottor Parkison. Mio padre ironizzava la presenza di questo suo immaginario amico fedelmente seduto ogni giorno accanto a sé. “non mi lascia mai” diceva mentre le sue mani maldestre lanciavano la minestra che non reggeva abbastanza la gravitá sul cucchiaio con quel tremore. E gli escrementi non trovavano neanch’essi il loro giusto posto dove essere collocati, mentre la notte si confondeva col giorno in un trascorrere del tempo alterato e bizzarro, come accade in queste malattie.
Ogni cosa era confusamente e tumultuosamente rimaneggiata dagli eventi che sembravano essersi dato appuntamento tutti insieme all’interno della mia esistenza. Niente era piú al suo posto come prima. Uno tsunami dell’esistenza. Nel silenzio delle notti spesso le urla di chi non sapeva sostenere il dolore della malattia riecheggiavano come pipistrelli alla finestra. E non solo. Il mio lavoro, frutto di anni di studio e sacrifici, si era ridotto al solito precariato senza rispetto. Dignitá della propria professione annullata per far spazio agli orgogli personali di Io arroganti e colmi di rabbia contro la vita. Cercavo di ricorrere alla legge per combattere i soprusi, ma la legge é solo un mucchio di scartoffie che ognuno, giudici compresi, vuole compilare e chiudere prima possibile per far largo negli scaffali.
Di giorno svolgevo i miei compiti quotidiani. Continuavo a far la spesa e ogni tanto a mangiare. Riuscivo persino a guardare la tv nonostante le ansie mi percorressero il fisico senza lasciarmi mai. Alleggerivo le isterie di mia madre prendendomi cura di mio padre.
E piangevo. Piangevo mentre facevo la spesa, mentre mi lavavo i denti, mentre concordavo con l’avvocato le ultime faccende sui testimoni della mia causa di lavoro.
Richiami fedeli mi arrivavano da piú parti. La mia solida amica, quella che sapeva chi ero, mi chiedeva di “distanziarmi” dal dolore. Come ci si distanzia da se stessi? Il dolore ed io eravamo entrambi tutt’uno fusi in un unico corpo compatto. Le lacrime mi scorrevano nel piatto e la notte rendevano il cuscino umidiccio e scomodo. Scomodo perché certe notti sono maledettamente scomode. Quando il sole scompare e gli ultimi raggi si affievoliscono sempre piú sembra che possiamo ritrovare il nostro posto all’interno del nostro inferno, nella grotta dell’anima nera, dove i fantasmi si aggirano e ci annientano. Tutto finché riesce a venir fuori il giorno per fortuna ad alleviare quei sintomi.
Avevo bisogno di distanziarmi.
Temevo che ancora un giorno senza piú il mio sangue nelle vene e senza piú respiro nei polmoni sarei sparita in una di quelle notti senza lasciare traccia di me. Sapevo che non mancava molto e i miei pensieri avrebbero preso forma sempre piú astuti nell’attuare quella risoluzione che sembra inevitabile.
Scelsi di distanziarmi, era il consiglio migliore anche se il piú faticoso. Una cugina che viveva in Germania mi avrebbe ospitata per le vacanze di Pasqua. Piangevo anche nell’agenzia viaggi quando la signorina mi prenotava il volo ed impiastricciai il biglietto di scolo nasale che non riuscivo piu a contenere. Non era un viaggio di piacere e forse sarei potuta andare a Lourdes anziché nel Nordrhein-Westfalen. Che ci dovevo fare lí? Avrei potuto visitare le miniere di carbone dismesse. Io sarei sparita volentieri allora nei cuniculi di quelle miniere per seppellire insieme a me quella massa pesantissima di dolore che mi portavo appresso.
Ma dovevo distanziarmi ed era febbraio. Avrei aspettato pasqua a fine marzo. I periodi di festa sono come le notti, acutizzano i sensi e ti fanno percepire le assenze e i dolori con una intensitá tale che ti spinge ad odiarle quelle maledette vacanze.
Mia madre sprigionava la sua teatralitá con raffinata arte mentre mio padre faceva la pipí sui muri, le amicizie diventavano sempre piú evanescenti e tranne qualche sfogo con mia sorella, che mi ascoltava paziente, avevo ben pochi stimoli alla comunicazione.
Quell’uomo che negli ultimi anni aveva rappresentato il centro del mio universo si sbizzarriva in accuse violente e manifestazioni colleriche contro di me, vomitandomi addosso colpe e disprezzo, evidenziando le mie debolezze e usandole come armi in un gioco sporco delle parti. L’arroganza quando perde il suo controllo sa sprigionare vera rabbia, quando le colpe si mischiano alle proprie responsabilitá viene fuori un canto strozzato e stridulo che facevo fatica ad ascoltare. Dover subire tutto ció quando hai giá l’anima in pezzi é davvero una prova di vita. Ma si avvicinava marzo e senza piangere presi quell’uccello di bianco metallo che avrebbe dovuto mettermi a distanza dal dolore.
Mia cugina mi aspettava per mettere finalmente in atto questo diabolico “Distanziamento”,
La cortesia e la gentilezza sua e di suo marito, l’essere in un altro paese tra gente nuova e con un’aria fresca da respirare, resero da subito la mia anima piú leggera permettendomi addirittura di dormire profondamente un’intera notte.
Passai la giornata ridendo a crepapelle con mia cugina. Mi misi lo smalto verde alle unghie e mi feci i codini ai capelli e fu cosí che andai ad aprire la porta quando sentí suonare.
Un viso tedesco, occhi chiari e sopracciglia bionde come i capelli, uno sguardo sorridente.
“C’é un tipo alla porta” dissi a mia cugina
“Ah si dev’essere l’amico di Michael, fallo entrare” disse lei mentre noncurante continuava a fare le sue faccende in cucina.
Lui entró da quella porta direttamente nella mia vita senza neanche prestare attenzione alle unghie verdi e ai codini da stupida adolescente.
Cenammo insieme e l’ilaritá esplodeva nella stanza come fuochi d’artificio.
Il giorno dopo andammo a fare un giro ad Amsterdam e tra quei ponti e quei vascelli di legno avvertivo come sparissero pian piano le rabbie, le frustrazioni, le sofferenze, i dolori. Passeggiavamo e ridevamo, ci sfioravamo le mani e ci guardavamo. In 24 ore era stato segnato il confine tra la mia esistenza passata e la mia vita futura. Un ponte per la salvezza.
Fu da quella sera che evaporarono i disagi tra noi per far spazio a quell’unione di anime che non ci é concesso spesso di sperimentare.
Quando Thomas prese tra le mani il mio biglietto aereo ancora sdrucito di lacrime e lo strappó riuscí a lasciarmi senza fiato. “Tu non parti piú, tu resti qui con me” mi disse sorridente.
Non lo presi seriamente a dire il vero, risi divertita mentre mi organizzavo per restare qualche giorno in piú. Esploravamo i parchi, esploravamo le nostre menti. Ci scrutavamo l’un l’altro come a trovare quel segno di valore che ci univa. Lo osservavo mentre suonava al pianoforte e quelle note mi arrivavano cosí dentro da sembrare le cellule perse del mio sangue che riprendevano il loro viaggio su e giú tra le mie vene. Tornai a casa con una faccia nuova. Nessun chirurgo estetico credo sia in grado di modificare i lineamenti del viso come furono modificati a me dopo quel viaggio, sprigionavo sguardi nuovi che non passavano inosservati.
Ci parlavamo tutte le sere per ore Thomas ed io Il suo italiano era impacciato, il mio inglese ancor di piú, ma ci capivamo bene e google traduttore non esisteva ancora. Ma l’anima traduce in parole tutto quello che vuole e quando vuole traduce persino il silenzio.
Ma non potevo seguirlo, il Dottor Parkinson diceva che mio padre aveva bisogno di me e non sarei mai riuscita ad allontanarmi da quella famiglia cosí dissestata.
Thomas venne a trovarmi a giugno. Conobbe mio padre che allora era nella casa di riposo. Passeggiammo insieme nel parco e l’aria era giá calda. Il cielo azzurro e le cicale facevano da sfondo. Lucidamente mio padre ci osservava. Sempre sfacciatamente curioso lo interrogó a lungo. Volle sapere tutto di lui, della sua vita, dei suoi progetti. Capí che lui aveva un progetto preciso e che difficilmente avrebbe mollato.
Il giorno successivo ci chiamarono dalla casa di riposo per informarci che mio padre si era ammalato. “Un influenza”, disse il medico del Centro.
Quando andammo a trovarlo non era piú lo stesso uomo del giorno prima. Era rimasto a letto in camera e il suo viso era profondamente sofferente. Ci guardava attentamente e con lo sguardo cosí fisso su di me che mi spinse a chiedergli : “perché mi guardi cosí papá?”
“perché finalmente vedo la gioia nei tuoi occhi” rispose con un filo di voce
poi si rivolse a Thomas e lo guardó ancora intensamente negli occhi
“Tu la ami?” gli chiese senza alcun pudore
“Ma certo che la amo “ rispose lui senza esitare
Un gesto lento come se fosse al rallentatore lo portó a girare la testa verso di me e quasi a bassa voce come se mi stesse confidando un segreto che nessuno doveva ascoltare disse:
“quest’uomo mi piace”
Queste furono le sue ultime parole.
Entró in stato di coma e il mattino seguente morí
Salutammo amici e parenti, prendemmo le condoglianze con serenitá, c’era tanta pace in quella stanza.
Non versai una sola lacrima quei giorni. Ero finalmente serena per lui. Era arrivato finalmente quel momento che spezza ogni squallido senso di vivere una vita disperata e sofferta.
Sereno mi lasció volare spezzando le catene che inchiodavano lui alla sua sedia a rotelle e me alla mia sedia di perdite e dolori.
Avevamo varcato insieme la soglia di un aldilá. Insieme avevamo abbandonato la sofferenza e insieme ci eravamo salutati consapevoli del viaggio che ognuno di noi si accingeva a fare.
Ancora oggi mi chiedo come si possa scegliere di partire senza biglietto di ritorno, ma ci sono viaggi che evidentemente vanno fatti con il cuore e con un gran coraggio.
Thomas ed io partimmo subito dopo il funerale. Mia madre ci salutó serena.
“Adesso puoi andare tranquilla “ mi disse
Anche il mio cavallo mi seguí in questo viaggio di sola andata.
Il freddo, la cultura, la lingua, ogni cosa ha necessitato uno sforzo da parte mia. Persino le strade erano un problema fino a quando non ebbi finalmente conquistato il mio primo navigatore. Non solo il navigatore, ma anche la tecnologia nel mio caso ha creato un ponte tra me e le mie nostalgie, tra me e i miei affetti sostenendomi e rassicurandomi.
Ho pianto a volte nel non riuscire a trovare un ruolo che mi appartenesse. Ho avuto rabbia e sconforto nel declinare i verbi e gli aggettivi e ho dovuto persino modificare la mia gestualitá e il mio tono di voce troppo appariscente a volte.
Ho imparato a guidare con la cintura e a osservare i limiti di velocitá. Continuo sempre a cucinare la pasta e la cucina italiana non é mai stata messa in discussione a differenza di alcune usanze che invece hanno dovuto riaggiustarsi.
Qualcosa l’ho tenuta stretta, qualcosa l’ho mollata via, ma alla fine ho potuto godere di privilegi che non a tutti é dato di avere. Ma soprattutto sento di aver lasciato dietro di me quello che andava lasciato. Non mi sono mai voltata indietro e sebbene ancora scalpito per insofferenze o aspirazioni deluse mi capita di sorridere divertita quando il mio cellulare italiano ancora oggi, dopo vent’ anni, mi dice :Willkommen in Deutschland!